Prigioni Mantovane

Inizialmente, la detenzione a Mantova era un fenomeno frammentato, spesso integrato nelle sedi del potere civile come il Palazzo del Podestà, dove la punizione assumeva una funzione spiccatamente deterrente e spettacolare, con pratiche come i “tratti di corda” esposte pubblicamente. La Torre della Gabbia, con la sua “gabbia all’aperto”, simboleggiava più il terrore della giustizia che una pratica detentiva funzionale, riflettendo una fase in cui l’impatto simbolico prevaleva sulla reclusione pratica. Le condizioni carcerarie riflettevano una chiara stratificazione sociale ed economica, con la possibilità di “acquistare” condizioni migliori e un sistema di subappalto della custodia che generava profitto, evidenziando una disuguaglianza intrinseca nelle pratiche penali.

Sotto il dominio dei Gonzaga, il sistema giudiziario era caratterizzato da una pluralità di magistrature periferiche e da una legislazione specifica piuttosto che da un codice penale unificato, tipico di uno stato pre-moderno. Con l’avvento del dominio asburgico, si assiste a una crescente centralizzazione e razionalizzazione della giustizia, con un aumento delle carceri e una riorganizzazione amministrativa. Il Castello di San Giorgio, da fortezza difensiva, fu trasformato in un carcere di massima sicurezza per oppositori politici, come i Martiri di Belfiore, dimostrando la politicizzazione degli spazi detentivi in periodi di lotta nazionale. Il Carcere della Mainolda, da palazzo nobiliare, divenne un simbolo di prigionia politica, dove le tecnicalità legali potevano, in rari casi, determinare la sopravvivenza dei detenuti. Le riforme asburgiche, seppur graduali, portarono all’abolizione del “carcere durissimo” e, infine, della pena di morte, segnando un passo verso principi penali più moderni e meno brutali.

Il passaggio al Regno d’Italia e il XX secolo hanno visto la dismissione delle antiche prigioni, spesso riconvertite a nuovi usi civici e culturali, come la Mainolda trasformata in teatro, in un tentativo di superare un passato di sofferenza, pur mantenendo tracce della loro funzione originaria. L’apertura del Carcere di Via Carlo Poma nel 1911, in sostituzione delle “luridicissime” vecchie carceri, fu mossa da un impulso umanitario e dalla volontà di creare strutture più moderne e funzionali, con spazi dedicati a laboratori e attività.

Oggi, il sistema penitenziario mantovano, esemplificato dal Carcere di Via Carlo Poma e dalla trasformazione dell’OPG di Castiglione delle Stiviere in REMS, si confronta con le sfide contemporanee. Nonostante gli sforzi per offrire attività rieducative e mantenere i contatti sociali, il sovraffollamento rimane una problematica critica, compromettendo le condizioni di detenzione e l’efficacia dei programmi di reinserimento. La chiusura degli OPG e il passaggio a un modello di gestione sanitaria per i malati psichiatrici rappresentano un significativo cambio di paradigma, riconoscendo la necessità di un approccio terapeutico piuttosto che meramente punitivo.

In sintesi, la storia delle prigioni mantovane è un racconto di continua tensione tra le funzioni punitive e deterrenti della detenzione e gli emergenti ideali di rieducazione e umanità. Essa riflette fedelmente le più ampie tendenze italiane ed europee nella filosofia e nella pratica penale, mostrando un percorso complesso e spesso contraddittorio verso un sistema di giustizia più moderno e attento ai diritti individuali, pur con le persistenti sfide che ancora oggi lo caratterizzano.

Recensione